Memorie collettive
Luiz Ruffato
TESTO IN ITALIANO (Texto em português)Una volta un lettore si fermò di fronte a me e pronunciò la terribile domanda: "Ti ricordi di me?" Questo forse, per i timidi come me, é il momento peggiore della già scomoda sessione di autografi. Se, a causa degli anni trascorsi, il suo viso mi appariva indefinibile, ora, aggravato dal nervosismo della situazione, mi divenne assolutamente estraneo. Percependo il mio disagio, cercò di stimolare i miei ricordi: "Sono anch'io di Cataguases ..." sussurrò. Così, come se fossi appena entrato in una stanza buia, illuminata solo da una torcia elettrica, iniziarono ad apparirmi gradualmente alcune vaghe immagini.
Sotto la calvizie, gli occhiali spessi, la pancia prominente, emerse Carlinhos, il mio amico della scuola elementare del Grupo Escolar Flávia Dutra, con cui avevo condiviso i pomeriggi di biliardino e le corse nella piazzetta, quando contavamo le nuvole e sognavamo. Mi alzai, lo abbracciai e, piuttosto commosso, prima che mi sedessi di nuovo, lui a bruciapelo mi disse: "Non sapevo che Gilmar fosse diventato zoppo ... caspita! Sai che mi ricordo ancora quel giorno in cui Marquinho fu investito....Anche se eravamo piccoli, rimasi impressionato da quella enorme macchia sul selciato ... e Vicente Cambota? Che modo orribile di morire! " Poi tenendomi per un braccio aggiunse:" Hai uma memoria formidabile! Ma come fai a ricordare tutto in modo così dettagliato?" Confuso, presi un bicchiere d'acqua. Stordito, pensai di spiegare che quelle persone di cui lui parlava con tanta intimità, erano solo personaggi dei miei libri, non si trattava di ricordi della nostra infanzia. Ma come dirglielo, se quelle mie accennate evocazioni, in qualche modo, si erano trasformate in reminiscenze comuni?
La domanda che mi perseguita è la seguente: partendo da esperienze personali, cioé autobiografiche, com'è possibile creare un'opera che, seppur costruita artificiosamente, riesca ad influenzare l'altro fino al punto da divenire una sorta di "verità comune"? Non ho ancora trovato una risposta che mi sembri appropriata. Tuttavia, mi permetto una breve riflessione. Per quanto siamo consapevoli di aver fatto molta strada da quando siamo scesi dagli alberi e abbiamo iniziato ad usare le mani per creare strumenti, credo che alcune delle nostre abitudini più primitive siano rimaste radicate nel profondo del nostro essere. Il terrore di fronte all'oscurità assoluta, la paura dello straniero, l'autodifesa incondizionata dei membri dello stesso clan (sangue, religione, calcio, ecc.), l'impotenza e, di conseguenza, la paura di fronte ai fenomeni naturali, sono solo alcuni e ben noti esempi. Penso anche che la creazione artistica venga alimentata da questa necessità primordiale, che ci fa apprendere ed evolvere con l'esperienza, aiutandoci a differenziarci dagli altri animali grazie all' acquisizione dell'autocoscienza, cioè della nozione di soggettività.
Immaginiamo un gruppo di uomini, raccoglitori o cacciatori che, tornati alla caverna alla fine di una giornata pesante, dopo aver incontrato donne e bambini, si riuniscono attorno a un falò per riposare. Subito qualcuno di loro, vantandosi, racconta che dopo essere stato messo in trappola da un animale, è riuscito a liberarsene astutamente, e l'ha ferito a morte. Nasce un putiferio, sorgono domande indagatorie, richieste, qualcuno chiede maggiori dettagli, e, tra sospiri di ammirazione e smorfie di invidia, ecco che cala un denso sonno. Il giorno seguente, prima che ripartano nuovamente all' avventura per la sopravvivenza, uno dei membri del gruppo (forse una donna, perché no?) registra sulle pareti della caverna la scena narrata.
Per iscritto, cioè, diventato concreto, il racconto della storia cessa di essere un'esperienza individuale, trasformandosi, inizialmente, in un esempio. Nel corso del tempo, però, i rapporti oggettivi tra quel segno pittorico e il suo evento scatenante, si sfilacciano e l'esperienza della persona che suscitò la scena sopra descritta, grazie alla ripetizione, diventa esperienza del gruppo al quale lui appartiene. Ovvero, ciò che era memoria individuale si trasforma in memoria collettiva. Meglio ancora, trascende il carattere meramente didattico, riemergendo attraverso l'arte.
Mia madre, figlia di italiani che emigrarono in Brasile per sfuggire alla miseria del Veneto, nacque in una piccola colonia a Rodeiro. Mio padre, figlio di portoghesi che emigrarono in Brasile per sfuggire alla miseria in Portogallo, nacque a Guidoval. Dopo essersi sposati, lei analfabeta, lui semianalfabeta, decisero di trasferirsi a Cataguases, perché intuirono che quella picola città dell'interno del Minas Gerais, ove fin dagli inizi del XX secolo esistono aziende tessili, proprio per la sua forte vocazione industriale, avrebbe potuto offrire migliori prospettive di vita ai loro figli. Si aggiustarono in un cortiço a Vila Teresa, vicino alle fabbriche di tessuto. Si guadagnavano da vivere, lei lavando e stirando i vestiti; lui vendendo pop-corn e facendo lavori saltuari. Con il passare degli anni, ci trasferimmo in periferia, prima al quartiere di Paraiso; e più tardi a Taquara Preta.
Iniziai a lavorare molto presto: aiutavo mio padre occupandomi del carretto del pop-corn, poi fui cassiere in un baretto, commesso in una merceria, dipendente in una fabbrica di cotone idrofilo. Ho convissuto da sempre con gli operai, sia i miei fratelli, colleghi e vicini che lavoravano come tessitori o capisquadra nel settore tessile, sia quei fortunati che, durante i periodi festivi o le vacanze di fine anno, da Rio de Janeiro e São Paulo potevano far ritorno nella loro città, diffondendo i sogni di una vita migliore oltre le colline semi-arancioni che circondano Cataguases. Incoraggiato da mia madre, frequentai i corsi di tornitura al Senai, pensando che un giorno anch' io sarei entrato a far parte delle file dei metallurgici in ABC. Non lo feci solo perché mi laureai proprio nell'epoca in cui erano scoppiati gli scioperi che avrebbero messo fuori gioco la dittatura militare a favore di una nuova repubblica. Così, invece di fare ciò, mi diressi a Juiz de Fora, dove trovai un impiego presso un' officina meccanica. Però la notte studiavo, mirando sempre a un futuro più dignitoso, che lasciasse i miei genitori orgogliosi della mia tenacia.
Negli anni '90, quando decisi di dedicarmi alla letteratura, sapevo esattamente su cosa scrivere, anche se non avevo idea di come scrivere. Portavo incise sul mio corpo innumerevoli storie di quelli che timbrano il cartellino, personaggi stranamente assenti dalle pagine dei libri brasiliani di narrativa. Ogni volta che mi accingevo a scrivere, non affioravano mie memorie personali, ma gli odori, i suoni, le immagini, i sapori e le sensazioni termiche di uno spazio e di un tempo comuni. Io non facevo altro che mediare la manifestazione della memoria collettiva, filtrandola in una narrazione che, in definitiva, tramite il lettore, voleva essere restituita alla memoria collettiva. Era un processo simile a quello che ridona sensibilità ad un membro del corpo di un paziente il quale, dopo aver sofferto un trauma, non riconosce più i comandi inviati dal cervello.
Credo che al mio amico Carlinhos successe proprio questo. I miei ricordi immaginari risvegliarono in lui veri ricordi, non perché le storie raccontate fossero basate su fatti, ma perché si basavano su ricordi comuni a me, a lui e a tutti coloro che in un determinato momento si trovavano in un determinato luogo. La cosa più affascinante è che questo determinato momento e questo dato luogo trascende il tempo e lo spazio della narrativa, dissolvendosi o espandendosi nello spazio e nel tempo della finzione, che è, alla fine e all'inizio, il qui e ora del lettore.
Luiz Ruffato. Scrittore, ha pubblicato romanzi (Eles eram muitos cavalos, De mim já nem se lembra, Estive em Lisboa e lembrei de você, Inferno Provisório e Flores artificiais), poemas (As máscaras singulares), cronache (Minha primeira vez) e libri per l' infanzia (A história verdadeira do Sapo Luiz). I suoi libri hanno ricevuto i premi APCA, Machado de Assis, Jabuti e Casa de las Americas e sono pubblicati in Italia, Francia, Portogallo, Argentina, Colombia, Cuba, Messico, Germania, Stati Uniti, Finlandia e Macedonia. Ha vinto il Premio Internazionale Hermann Hesse 2016 in Germania. In Italia finora sono apparsi Di me ormai non ti ricordi, Fiori artificiali, Sono stato a Lisbona e ho pensato a te, Come tanti cavalli.
Traduzione di Antonella Rita Roscilli
© SARAPEGBE
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TEXTO EM PORTUGUÊS (Testo in italiano)Memórias coletivas
por
Luiz Ruffato
Certa feita, um leitor postou-se à minha frente e sapecou a terrível pergunta: “Lembra-se de mim?”. Este talvez seja o pior momento da já desconfortável, para os tímidos como eu, sessão de autógrafos. Se pelo assoreamento do tempo seu rosto me era indefinível, agora, agravado pelo nervosismo da situação, tornara-se absolutamente estranho. Percebendo meu constrangimento, ele intentou atiçar minhas recordações: “Também sou de Cataguases...”, assoprou. E, como penetrasse um cômodo escuro, de posse apenas de uma lanterna, aos poucos algumas vagas imagens ascenderam.
Por debaixo da calvície, dos óculos de lentes grossas, da barriga proeminente, emergiu o Carlinhos, meu colega do curso primário no Grupo Escolar Flávia Dutra, com quem compartilhei tardes de futebol de botão, corridas em torno da Pracinha, contabilidades de nuvens, sonhos. Então, levantei-me e o abracei e, bastante comovido, antes que me sentasse novamente, ele arremessou, à queima-roupa: “Eu não sabia que o Gilmar tinha ficado manco não... que coisa! Sabe que eu lembro até hoje do dia que o Marquinho foi atropelado... A gente era pequeno, mas fiquei impressionado com aquela mancha enorme nos paralelepípedos... E o Vicente Cambota, heim? Que maneira horrível de morrer!” E, segurando meu braço: “Que memória você tem! Como você consegue lembrar de tudo, tintim por tintim?”. Confuso, tomei um copo d’água. Zonzo, pensei explicar que aquelas pessoas de quem ele falava, com tamanha intimidade, eram somente personagens de meus livros, não recordações da nossa infância. Mas como dizer isso a ele, se de alguma maneira aquelas minhas evocações difusas haviam se transformado em reminiscências comuns?
A pergunta que me persegue é: como podemos, a partir de experiências pessoais, portanto autobiográficas, erigir uma obra que, embora construída como artifício, possa afetar o outro, a ponto de tornar-se uma espécie de “verdade comum”. Não encontrei ainda uma resposta que me parecesse adequada. No entanto, arrisco-me a uma breve reflexão. Creio que, por mais que tenhamos consciência de que caminhamos muito desde que descemos das árvores e passamos a usar as mãos para a fabricação de instrumentos, alguns de nossos hábitos mais primitivos mantiveram-se arraigados nos recônditos de nosso ser. O terror diante da escuridão absoluta, o receio em relação ao estrangeiro, a autodefesa incondicional dos membros de um mesmo clã (seja sanguíneo, religioso, futebolístico, etc), a impotência, e por consequência, o medo, diante dos fenômenos naturais, eis apenas alguns poucos e conhecidos exemplos. Penso que também a criação artística se nutre desta necessidade primeva, que nos faz aprender, e evoluir, com a experiência, e que ajuda a nos diferenciar dos outros animais pela aquisição da autoconsciência, ou seja, da noção de subjetividade.
Imaginemos um bando de homens, coletores ou caçadores, voltando para a caverna ao fim de um dia estafante, e que, após reencontrar as mulheres e as crianças, reúnem-se em torno de uma fogueira para descansar. Logo surge alguém se gabando de que, após ter sido entocado por uma fera, conseguiu se livrar, astuciosamente, ferindo-a de morte. Há um alvoroço, nascem indagações, questionamentos, alguém pede mais detalhes, e, entre suspiros de admiração e esgares de inveja, o sono espesso se instala. No dia seguinte, antes de eles saírem novamente para a aventura da sobrevivência, um dos componentes do grupo (talvez uma mulher, por que não?) registra nas paredes da caverna a cena narrada. Inscrita, ou seja, tornada concreta, a história contada deixa de ser uma experiência individual, transfigurando-se, inicialmente, em exemplo. Com o tempo, entretanto, as relações objetivas entre aquele sinal pictórico e seu fato gerador vão se esgarçando, e a experiência do indivíduo que suscitou a cena descrita torna-se, pela repetição, experiência do grupo ao qual ele pertence - o que era memória individual transmuda-se em memória coletiva. Ou, melhor ainda, transcende o caráter meramente didático, ressurgindo em arte.
Minha mãe, filha de italianos imigrados para o Brasil para fugir da miséria da região do Vêneto, norte da Itália, nasceu numa pequena colônia em Rodeiro. Meu pai, filho de portugueses imigrados para o Brasil para fugir da miséria em Portugal, nasceu em Guidoval. Casados, ela, analfabeta, ele, semianalfabeto, mudaram-se para Cataguases, porque intuíram que a cidadezinha do interior de Minas Gerais, por sua forte vocação industrial, um parque têxtil existe lá desde o começo do Século XX, poderia oferecer aos filhos melhores perspectivas de vida. Instalados num cortiço na Vila Teresa, próximo às fábricas de tecido, ganharam a vida lavando e passando roupa, ela; vendendo pipoca e depois fazendo bicos, ele. À medida que os anos passavam, nos afastamos para a periferia, o bairro Paraíso, primeiro; a Taquara Preta, mais tarde.
Desde cedo, trabalhei: ajudei meu pai tomando conta de carrinho-de-pipoca, fui caixeiro de botequim, balconista de armarinho, assalariado numa empresa de algodão hidrófilo. E desde sempre convivi com operários, fossem meus irmãos, colegas e vizinhos que labutavam como tecelões ou contramestres na indústria têxtil, fossem os afortunados que, nos feriados grandes ou nas festas de fim de ano, retornavam à cidade, vindos do Rio de Janeiro e São Paulo, espargindo sonhos de uma vida melhor para além dos morros meia-laranja que circundam Cataguases. Incentivado pela minha mãe, cursei tornearia no Senai, pensando também em me alistar um dia nas fileiras metalúrgicas do ABC. Não o fiz, somente porque, ao me formar, haviam estourado as greves que iriam nocautear a ditadura militar e instaurar uma nova república. Ao invés disso, rumei para Juiz de Fora, onde, empregado numa oficina mecânica, estudava à noite, sempre almejando um futuro mais digno, que deixasse meus pais orgulhosos da minha tenacidade.
Quando, na década de 1990, decidi-me pela literatura, eu sabia exatamente
sobre o que escrever, embora não tivesse ideia ainda do
como. Eu trazia, gravadas em meu corpo, inúmeras histórias sobre aqueles que batem cartão de ponto, personagens estranhamente ausentes das páginas dos livros de ficção brasileiros. Não eram as minhas memórias pessoais que afloravam quando me dispunha a escrever, mas os cheiros, os sons, as imagens, os gostos e as sensações térmicas de um espaço e de um tempo comuns. Eu apenas intermediava a manifestação da memória coletiva, filtrando-a em narrativas que, em última análise, se querem devolvidas, por meio do leitor, à memória coletiva, num processo semelhante à ressensibilização de um membro do corpo de um paciente que, após sofrer um trauma, não reconhece mais os comandos enviados pelo cérebro.
Creio que isso o que ocorreu com meu amigo Carlinhos. As minhas lembranças ficcionais despertaram nele lembranças reais, não porque as histórias narradas tenham se baseado em fatos ocorridos, mas porque elas alicerçavam-se em memórias comuns a mim, a ele e a todos os que num
determinado momento encontravam-se num
dado lugar. O mais fascinante é que esse
determinado momento e esse
dado lugar transcende o tempo e o espaço da narrativa, dissolvendo-se ou expandindo-se no espaço e no tempo da ficção, que é, ao fim e ao cabo, o aqui e agora do leitor.
© SARAPEGBE
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Luiz Ruffato. Escritor, tem publicados romances (Eles eram muitos cavalos, De mim já nem se lembra, Estive em Lisboa e lembrei de você, Inferno Provisório e Flores artificiais), poemas (As máscaras singulares), crônicas (Minha primeira vez) e infantil (A história verdadeira do Sapo Luiz). Seus livros receberam os prêmios APCA, Machado de Assis, Jabuti e Casa de las Américas e estão publicados na Itália, França, Portugal, Argentina, Colômbia, Cuba, México, Alemanha, Estados Unidos, Finlândia e Macedônia. Ganhou em 2016 o Prêmio Internacional Hermann Hesse, na Alemanha.