Giovanni Sola era nostro zio per affinità. Era sposato con Carolina (Lina) Caputo, sorella di Anna Maria (Caputo Sangiovanni), cognata di mia madre Anina Sarno. Ma per tutti noi era l'ultimo zio venuto dall'Italia.
Viso tondo, mascelle larghe, braccia forti, occhi piccoli e di un azzurro intenso, somigliava a Geppetto, il padre di Pinocchio. Non perse mai il suo accento e la sua ammirazione per l'Italia. Il corpo era qui in Brasile, ma la mente era lì in Italia.

Di mestiere faceva il falegname e i miei zii, che si trovavano a Poções da molti anni, lo aiutarono ad avviare la sua falegnameria. Con nostra sorpresa chiamarono la falegnameria “putìa”. Sorridevamo di nascosto, felicissimi di poter dire “la putinha di zio Giovanni” davanti a tutti, facendo finta di aver sbagliato la pronuncia.

Ma questa non era una parola qualunque, era una parolaccia (in portoghese), ma in senso buono. Nacque in Grecia come “apothéke” (magazzino, deposito), viaggiò nell'antica Roma come “apotheca” (tazza, dispensa), circolò in Toscana come “bottega” (negozio) e in Italia come “putighino” (piccola bottega). , e veniva usato nel dialetto mormanno come “putiga” – “putía”: la falegnameria di Giovanni Sola a Poções!
In vacanza potevamo scegliere: aiutare nel negozio di tessuti e ferramenta, oppure nella “putìa” di Giovanni. Pepone e José Fidelis scelsero di lavorare nel negozio, invece io scelsi di aiutare lo zio Giovanni.

Ci andavo tutti i giorni e vedevo arrivare quelle enormi tavole di legno duro, di cedro, peroba o palissandro, che venivano poi segate da due persone, azionando una grande sega manuale davanti alla Riseria Fidelis. Preparavano una piattaforma, dove sostenevano il tronco. Mentre uno stavain alto con la sega, l'altro stava in basso, e la grande sega andava e veniva facendo il suo lavoro.

Giovanni aveva portato dall'Italia i suoi piccoli strumenti da lavoro, insieme ai cataloghi dei mobili. Al muro stavano appese seghe, scalpelli, squadre, righelli e pialle. Molti di questi strumenti erano sconosciuti ai falegnami locali che lavoravano nel Beco dos Artistas, all’angolo del quale si trovava la “putìa”.  I cataloghi venivano mostrati ai clienti con cura, e lo zio Giovanni provava un certo orgoglio nel realizzare tutti quei bei mobili. Non si trattava di uno stile antico ed elaborato, né di uno stile moderno ed essenziale. Era uno stile, diciamo, utilitaristico, funzionale, solido, con decorazioni al limite del necessario.

                                                   
Con destrezza realizzò e assemblò con cura tutti gli accessori, li carteggiò alla perfezione e preparò la colla e la vernice sul fuoco. Quell'odore, mescolato a quello del legno, lasciava alla “putìa” un odore gradevole. La vista dei trucioli riccioluti che saltavano fuori dalla pialla e si accumulavano sul pavimento completava quella scena artigianale.
 
Aveva anche tutte le grandi macchine elettriche: sega, pialla, tornio e fresatrice. L'energia all'epoca era fornita dal motore privato di Casa Sarno. Il motore Brás Labanca, che serviva la città, era rotto, in attesa di una riparazione da São Paulo che non arrivò mai.

Molto loquace, Giovanni coglieva ogni occasione per farsi una bella chiacchierata.  Possedeva un accento forte e gesti di enfasi, ma il suo argomento preferito era il confronto tra Brasile e Italia. Rappresentava l'europeo del dopoguerra che ricostruiva tutto attraverso il lavoro. E criticava la lentezza e l’inefficienza del Brasile, che non aveva mai saputo cosa fosse realmente la guerra.

La pausa per la merenda era sacra. Dalla Padaria Vitória di Antonio Leto, la zia Lina portava una grande pagnotta divisa a metà, farcita con fette di pomodoro, peperoni e cipolle. Mentre mangiava e parlava, Giovanni ripeteva i suoi discorsi in favore dell’Italia.

Ogni giorno, e senza alcuna protezione, respiravo quella polvere che mi lasciava il naso chiuso e i capelli colorati. Ogni giorno spazzavo a terra quei trucioli riccioluti gialli, rossi e scuri.

A fine settimana ricevevo da lui alcuni spiccioli, era la cifra giusta per comprare i fumetti e andare alle proiezioni mattutine del Cinema Sant’ Antonio, per vedere un film su Tarzan e una serie di Zorro.
Giovanni non ritornò mai più nella sua amata patria. Visse fino alla fine insieme ai suoi indimenticabili ricordi italiani. In realtà non lasciò mai l’Italia.
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Eduardo Francisco Sarno. Figlio di genitori italiani, nato il 2 aprile 1946, nella città di Poções (Bahia-Brasile). Ex seminarista ed ex attivista politico durante la dittatura militare. La ricerca si è concentrata sulla storia delle famiglie Sarno, Sangiovanni e Leto, nonché sull'immigrazione italiana a Bahia in generale. Ha collaborato con lo storico del Pernambuco Manuel Correia de Andrade, in ricerche locali per la pubblicazione del libro "A Itália no Nordeste" - Massangana-1992. Ha inoltre collaborato alla redazione del libro “Casa Confiança”, Attucci Editrice-2004, lavorando alla versione portoghese della storia di Carmine Marotta (nonno). Dirige il Blog "Familia Sarno", dove pubblica articoli e cronache sull'immigrazione italiana a Bahia. https://familiasarno.blogspot.com/
 
 
Traduzione dal portoghese di A.R.R.

O marcineiro Giovanni Sola da Itália para o Brasil 
por
Eduardo Sarno

                                                           

Giovanni Sola era nosso tio por afinidade. Era casado com Carolina (Lina) Caputo, irmã de Anna Maria (Caputo Sangiovanni), cunhada de minha mãe Anina Sarno. Mas para todos nós ele era o último tio que tinha vindo da Itália.

Rosto redondo, maxilares largos, braços fortes, olhos pequenos e bem azuis, lembrava o Gepeto, pai do Pinóquio. Nunca perdeu o sotaque nem a admiração pela Itália. O corpo estava aqui, mas a mente estava lá.

Ele era marceneiro de profissão, e os meus tios, que já estavam em Poções há muitos anos, ajudaram a montar a sua marcenaria. Para surpresa nossa eles chamavam a marcenaria de “putìa”. Sorriamos escondidos, encantados por poder dizer “putinha de Tio Giovanni” na frente de todo mundo, fazendo de conta que tínhamos nos atrapalhado com a pronúncia.

Mas esta não era uma palavrinha qualquer, era um palavrão, no bom sentido. Ela nasceu na Grécia como “apothéke” (armazém, depósito), viajou para a Roma antiga como “ apotheca” (copa, dispensa) , circulou na Toscana como “bottega” (loja) e na Itália como “putighino” (lojinha) , e foi usada pelo dialeto de Mormanno como “putiga” – “ putía” : a marcenaria de Giovanni Sola em Poções!

Nas férias nós tínhamos uma escolha a fazer: ajudar na loja de tecidos e ferragens ou na “putìa” de Giovanni. Enquanto Pepone e José Fidelis escolheram a loja eu escolhi ajudar tio Giovanni.
Eu ia para lá todos os dias. E via chegar aquelas enormes pranchas de madeiras de lei, cedro, peroba, jacarandá, que tinham sido serradas por dois camaradas que ficavam operando uma grande serra manual em frente à Usina de Arroz de Fidelis. Eles armavam um jirau, onde apoiavam a tora, e enquanto um ficava em cima segurando a serra outro ficava em baixo e a grande serra ia e vinha fazendo o seu trabalho.

                                                     

Giovanni havia trazido da Itália seus instrumentos de trabalho menores e seus catálogos de móveis. As serras, formões, esquadros, réguas e plainas ficavam penduradas na parede. Muitos destes instrumentos eram desconhecidos dos marceneiros locais que trabalhavam no Beco dos Artistas, em cuja esquina ficava a “putìa”.

Os catálogos eram cuidadosamente mostrados aos clientes e sentia-se um certo orgulho de tio Giovanni por saber confeccionar todos aqueles bonitos móveis. Não era um estilo antigo, rebuscado, nem tampouco um estilo moderno, despojado. Era um estilo, digamos, utilitário, funcional, sólido, com enfeites no limite do necessário.

Com destreza ele fazia e montava cuidadosamente todos os encaixes, lixava à perfeição e preparava no fogo a química da cola e do verniz. Aquele cheiro, misturado com o da madeira deixava a “putìa” com um odor agradável. A visão dos cavacos encaracolados saltando da plaina e acumulando-se no chão completavam aquela cena artesanal.
 
Ele tinha também todas as grandes máquinas elétricas: serra, plaina, torno e tupia. A energia na época era fornecida pelo motor particular da Casa Sarno. O motor de Brás Labanca, que atendia a cidade estava quebrado, aguardando um conserto de São Paulo que nunca chegou.

Muito conversador, Giovanni aproveitava todas as oportunidades para um bom papo. Com sotaque carregado e enfático nos gestos, tinha como assunto predileto a comparação entre o Brasil e a Itália. Ele representava o europeu pós-guerra que tudo reerguia através do trabalho. E criticava a pachorra e a ineficiência brasileira que nunca soube o que era guerra.

O intervalo para o lanche era sagrado. Tia Lina trazia da Padaria Vitória, de Antonio Leto um grande pão, partido ao meio, com recheio de fatias de tomate, pimentão e cebola. Comendo e conversando Giovanni passava em revista os seus argumentos pró-Itália.

Sem proteção nenhuma eu respirava diariamente aquele pó que deixava meu nariz entupido e meu cabelo colorido. E varria diariamente aqueles cavacos cacheados, amarelos, vermelhos e escuros.
No final da semana ele me dava alguns trocados, que era a conta certa para comprar gibis e ir à matinê no Cine Santo Antonio, assistir um filme de Tarzan e um seriado do Zorro.

Giovanni nunca voltou para a sua amada pátria. Viveu até o fim com suas inesquecíveis lembranças italianas. A bem dizer, nunca saiu da Itália.