L'ultima intervista di Jorge Amado in Italia
Gianni Minà
Gianni Minà con Jorge Amado e Zélia Gattai
L’ironia beffarda e surreale di uno dei più famosi romanzi di Jorge Amado, Dona Flor e i suoi due mariti, trasferita in un film di Barreto interpretato da Sonia Braga, fece epoca e lanciò il cinema latinoamericano. Amado, patriarca della letteratura brasiliana, scomparso all’inizio di agosto 2001, è l’esempio di una vocazione alla scrittura perseguita dall’età di sedici anni, quando scappò da un collegio religioso per fare il fattorino e poi il cronista in un giornale.


Il Paese del carnevale, scritto a diciannove anni, segnò il suo destino di narratore dell’umanità più mortificata del Brasile e, nello stesso tempo, di quella più allegra e piena di speranza. Sono gli anni dei grandi sconvolgimenti sociali anche in America latina, che vive la Grande Guerra solo di riflesso, ma sogna un riscatto che le logiche economiche vanificheranno già negli anni Quaranta con dittature che costringeranno intellettuali come Amado all’esilio.

Jorge, che era stato deputato del Partito comunista, scelse con la moglie Zélia, figlia di anarchici italiani, prima il Portogallo e poi l’Italia dove i suoi amici Zavattini, Nenni, Sereni, gli assicuravano che avrebbe vinto il Fronte popolare. Non fu così. “Vinse la Chiesa”, scrisse poi Amado. Cominciò allora l’epoca della militanza nel movimento pacifista con Picasso e Sartre, a cui fece seguito il soggiorno a Mosca dove vinse i premi Lenin e Stalin.

Con il rientro in Brasile nel 1954, dopo tante contraddittorie esperienze, Amado attuò una revisione critica della sua letteratura: “L’impegno civile lo devono sottolineare i fatti che scegli di raccontare, ma la narrazione deve essere libera, non condizionata dall’ideologia”. Dona Flor e i suoi due mariti, Gabriela garofano e cannella, Tocaia grande, Teresa Batista stanca di guerra, Tieta do Agreste, hanno consacrato Amado come uno degli scrittori più innovativi e preveggenti. Già sessant’anni fa aveva scritto I capitani della spiaggia sulla condizione disumana dei bambini della strada che allora erano poche centinaia e ora sono più di venti milioni e rappresentano in America Latina una tragedia biblica. Una profondità, una intuizione che qualche critico ha faticato a riconoscergli. Questa intervista del 1996 realizzata per il programma Storie di Rai 2 è l’ultima che Amado ha concesso prima di tribolare per cinque anni con il suo “stanchissimo cuore”.
                                                                                                                                  


L'INTERVISTA A JORGE AMADO 
 
GIANNI MINA’: Lei ha detto: “Non sono un intellettuale, ma qualcuno che sa qualcosa della vita”. Una volta un critico l’ha definito romanziere di prostitute e vagabondi. Si riconosce in questo ritratto?
 
JORGE AMADO: Mi riconosco perfettamente, perché la mia letteratura ha parlato degli emarginati, di quelli che sono abbandonati da tutti e quindi tra essi le prostitute e i vagabondi.
 
G.M.: Una vocazione o una presa di coscienza?
 
J.A.: Non lo so. Senza vocazione non si può scrivere, ma è la presa di coscienza che detta il tema e lo svolgimento della letteratura di un autore.
 
G.M.: Altri hanno detto: “La letteratura di Amado è sesso e cibo”.
 
J.A.: Non c’è solo questo, per quanto nella vita sia la sessualità, sia il cibo siano essenziali, ma ci sono molti altri aspetti importanti.
 
G.M.: E quali sono per lei?
 
J.A.: La difficoltà di vivere e la lotta per poter vivere. Nella mia letteratura credo che entrambi questi aspetti siano molto presenti: quanto sia difficile vivere in Brasile e come si lotta per uscire da questa condizione.
 
G.M.: Lei dove è nato?
 
J.A.: In una fattoria di cacao vicina all’attuale Pirangi.
 
G.M.: La sua famiglia si occupava di produzione di cacao?
 
J.A.: La mia famiglia viveva in una piccola fazenda di proprietà di mio padre. Ma quando avevo quattordici mesi il fiume che lambiva la nostra proprietà straripò e distrusse tutto. Mio padre e mia madre si trasferirono a Ilhéus, dove trascorsero molti anni. Lì facevano tamancos ossia della calzature con una base di legno e una copertura in cuoio. Vissero in povertà.
 
G.M.: Il tema della povertà è molto presente nei suoi scritti. E’ perché lo ha vissuto sulla sua pelle?
 
J.A.: La vita era molto difficile e io vedevo la povertà della gente che mi viveva attorno.
 
G.M.: Da un’intervista televisiva di Carlo Mazzarella del 1978, nella quale lei racconta “che cos’è uno scrittore brasiliano o latinoamericano”, emerge l’impegno degli intellettuali di questo continente e in particolare suo, riguardo ai problemi della gente. Lo stesso impegno non si coglie, invece, in molti intellettuali europei chiusi in una sorta di torre d’avorio.
 
J.A.: In Europa la letteratura discute le idee, in America Latina i fatti! La letteratura europea, in qualche modo, ha raggiunto un livello diverso e discute di cose che spesso non hanno rapporto con la vita quotidiana. Non parliamo della vita, perché la vita è così povera e meschina che obbliga lo scrittore a osservarla.
 
G.M.: Lei una volta ha detto: “Non so se sono bianco bahiano o un nero mulatto portoghese”. Perché?
 
J.A.: In Brasile ciò che predomina è la mescolanza di razze, di culture, di religioni. Quindi, un uomo con la pelle bianca può avere sangue negro o sangue indigeno, mentre un uomo con la pelle nera può avere sangue bianco, anzi, è certamente così! E’ molto difficile trovare un brasiliano che non abbia il sangue  misto, a meno che sia un figlio di immigrati di prima generazione.
 
G.M.: Credo fermamente che la convinzione “della propria origine mista” sia alle radici dei libri che lei scrive, come si può notare anche da alcune immagini del film Dona Flor e i suoi due mariti, tratto dal suo libro del 1967 nel quale, tra l’altro, si indovina un Jorge Amado più maturo. Qual’era la fonte di ispirazione di suoi primi libri come Il paese del carnevale o Cacao?
 
J.A.: I miei primi libri hanno una vena politica molto evidente, ma nella letteratura l’impronta politica non dovrebbe essere molto forte. All’inizio questo non lo capivo, ero giovane. Non intuivo che il mio voler cambiare le cose doveva essere più azione che discorso e che scegliendo un certo linguaggio esaurivo il tutto in un puro discorso ideologico che non aveva ragione d’essere.
 
G.M.: Ma anche i suoi primi libri erano belli!
 
J.A.: Ci sono cose interessanti, è vero.
 
G.M.: Lei è stato molto influenzato da Don Luis Carlos Prestes, fondatore del Partito comunista brasiliano?
 
J.A.: Prestes non ha fondato il PCB, ma senza dubbio è stato un uomo molto importante in Brasile. Si può essere d’accordo con lui o meno, ma non si può negare la sua importanza nella vita del paese.
 
G.M.: A che cosa si riferisce in particolare?
 
J.A.: Lui fece la celebre marcia della Colonna Prestes, e visitò l’interno del Brasile per tre anni. Fu lui a rivelare quale fosse il vero Brasile brasiliano.
 
G.M.: Fu una presa di coscienza.
 
J.A.: Senza dubbio!
 
G.M.: E tutto questo ha influenzato alcuni suoi libri come Sudore, Mar Morto?
 
J.A.: Si, esiste l’influenza di un pensiero politico nei miei libri. In Sudore, per esempio, parlo della vita del popolo miserabile e triste, popolo però che non si accontenta di questa realtà, non l’accetta e tenta di modificarla. Ma un’influenza politica forte non deve essere presente nei libri, è sufficiente la realtà perché si capisca che ci deve essere un cambiamento.
 
G.M.: Sessant’anni fa lei scriveva uno dei suoi libri-capolavoro, I capitani della spiaggia, un testo premonitore che parlava dei bambini della strada. Come le venne l’idea di scrivere un libro su questi bambini?
 
J.A.: Semplicemente perché, purtroppo, era una realtà già presente allora, anche se in misura minore. I capitani della spiaggia è un libro del 1937; quanti bambini erano abbandonati a Bahia in quel periodo, duecento, trecento? In tutto il Brasile mille, duemila? Oggi ci sono più di diciotto milioni di bambini abbandonati! Si rende conto quanto è cresciuto numericamente il problema da quando ho scritto quel libro e quanti problemi si siano aggiunti nel corso degli anni? La droga allora non esisteva, oggi c’è e segna questi bambini in modo violento, profondo. Io non so, veramente, che cosa si può fare per tentare di arginare un fenomeno così grande.
 
G.M.:  Il Brasile è il sesto paese produttore di alimenti nel mondo, l’ottantesimo per le condizioni di vita della gente. Di che cosa è figlia tale tragedia? Dell’economia neoliberista?
 
J.A.: In Brasile i beni materiali appartengono a una piccola minoranza, la maggior parte del popolo vive in condizioni terribili, inimmaginabili.
 
G.M.: Quando venne Carlo Mazzarella a casa sua, lei lo portò al mercato dicendogli che il mercato era una delle fonti di maggior ispirazione. Gli disse: “Nel mercato si possono sentire gli odori, gli aromi, i sapori della cucina africana. E, come in Africa, anche qui il mercato è un punto di incontro, una specie di piazza, di agorà, il pretesto di far festa ed esibire i propri talenti. La nostra musica nasce dall’influenza nera, portoghese e italiana. Il più grande compositore musicale di Bahia è un mulatto, ha sangue nero e italiano”.
Mazzarella, durante la stessa intervista, le chiese se in Brasile esistesse un problema razziale e lei gli rispose che i brasiliani sono un popolo misto, derivante dall’incrocio di diverse radici e culture. Negare, però, l’esistenza di un pregiudizio razziale era impossibile, perciò lei aggiunse: “Non esiste una filosofia di vita razzista, semplicemente perché una delle caratteristiche principali di Bahia è la sensualità, e la sensualità è nemica del razzismo”. E’ vero, la sensualità è nemica del razzismo?
 
J.A.: Sì! Vede, i portoghesi sono estremamente sensuali e ciò ha portato a superare in parte alcuni pregiudizi razziali. Io ne sono profondamente convinto.
 
G.M.: Lei ha detto: “Il mio primo amore fu una puttana che esercitava la professione nel vicolo di Maria Pas, nel 1927”. Si può parlare di amore?
 
J.A.: Si, l’amore è sicuramente una delle cose più importanti che esistono nella vita. L’amore per una prostituta di Bahia, l’amore di un giovane che inizia la sua vita, l’amore di un vecchio per la sua sposta, i suoi affetti. Credo che quello che è veramente importante nella vita sia l’amore, e ciò che ci dà allegria, coscienza della vita.
 
 
G.M.: L’amore non deve avere moralismi?
 
J.A.: L’amore non ha moralismi!
 
G.M.: Qual è l’amore che tiene vivo il Brasile: la religione animista, la musica, l’essere indomabile?
 
J.A.: La musica brasiliana è una ricchezza immensa. E’ soprattutto la razza africana a dare il ritmo, ed è lo stesso che si sente nella musica brasiliana, che si vede nella danza brasiliana o, anche, nel modo di camminare, nell’ancheggiare di una brasiliana vista per strada. Si sente immediatamente la presenza dell’Africa. Noi siamo il frutto della mescolanza fra il bianco, l’indio, il nero, ma io dico sempre che il nostro ombelico è l’Africa, perché è questo continente che ci ha marcato più profondamente.
 
G.M.: Mazzarella, intellettuale e viaggiatore curioso, durante il suo viaggio in Brasile, oltre a intervistarla dedicò molta attenzione – attestata da diversi documentari – a una delle espressioni musicali più caratteristiche di Bahia, il Candomblé da lui definito "Un vero rituale africano, proveniente dal Congo e dall’Angola, espressione e sintesi di feticismo, di spiritismo, di tradizione nera inserita in credenze cattoliche". Lei crede nel Candomblé?
 
J.A.: Io non credo in nulla, ma rispetto tutte le religioni, tutte le credenze, soprattutto quelle del popolo. Il Candomblé è una tradizione che viene dalla schiavitù, dalle case dei negri che lottavano per i valori portati dall’Africa e per questo venivano perseguitati. Lottavano affinché quei valori potessero giungere fino a noi, e io non posso che avere un infinito rispetto per coloro che sono riusciti a mantenere vive le fonti della propria cultura. Il Candomblé è una festa bellissima di danza e di canto. Nel Candomblé l’uomo si sente vicino a Dio, ha quasi una intimità con Dio nel cerchio della danza.
 
G.M.: Subito dopo aver scritto un libro dedicato a Carlos Prestes, lei ha militato nel Partito comunista ed è stato eletto anche deputato, insieme a Carlos Marighela, il leader della resistenza alla dittatura, poi ucciso nel 1967. Come ricorda quegli anni al Parlamento?
 
J.A.: Eravamo sedici deputati comunisti. Era la prima volta che i comunisti sedevano in Parlamento. Credo che abbiamo lavorato bene. Marighela era il nostro capo, una persona meravigliosa e un uomo pieno di allegria, di vita. A sedici anni era stato incarcerato e ne aveva passati dieci in prigione, eppure aveva un amore immenso per la vita e un affetto, una comprensione altrettanto grande per le persone. Ne ho nostalgia tutti i giorni!
 
G.M.: E perché lui, a un certo punto, è stato indicato come il nemico pubblico numero uno del Brasile, con la dittatura che lo braccava e lo uccise a soli cinquant’anni?
 
J.A.: Perché ha combattuto il regime, ed era un uomo di grande coraggio! Cercò di realizzare un’impresa impossibile, distruggere la dittatura e per questo l’hanno ucciso, assassinato a sangue freddo.
 
G.M.: In una precedente intervista lei mi ha detto: "Io conosco tutto il mio paese perché un giorno mi hanno arrestato al Sud e mi hanno portato a Rio in treno e un’altra volta mi hanno preso al Nord e mi hanno fatto attraversare il Brasile in battello. E’ stata una fortuna". Lei delle cose vede sempre il lato allegro delle cose.
 
J.A.: Si, è così. Dovremmo privilegiare sempre il lato positivo della vita. Io sono stato arrestato molte volte, ma non sono mai stato un prigioniero triste, disgraziato. Certo, non ero allegro o pieno di vita, ma sicuramente sono stato un carcerato che ha saputo approfittare della situazione per imparare qualcosa. E poi non ho mai protestato perché mi imprigionavano. Io mi battevo contro di loro ed era normale che loro lottassero contro di me.
 
G.M.: Tutto questo accadeva negli anni Trenta?
 
J.A.: Trenta, Quaranta. La prima volta che fui arrestato fu nel 1936, credo. Passai quattro mesi in carcere a Rio.
 
G.M.: Per quale motivo?
 
J.A.: Perché la dittatura si stava affermando, stava salendo al potere. Il Brasile era in guerra con il suo popolo e noi lottavamo contro questa infamia, per questo fui arrestato.
 
G.M.: Lei fu anche costretto a un esilio forzato in Europa dove approfondì i suoi rapporti con Picasso, Sartre, Simone De Beauvoir, Ungaretti, Carlo Levi, Pratolini e altri. Furono anni di malinconia e di attesa. Le costò lasciare nel 1946 il suo Brasile, scappare, cercare un’altra patria, venire in Europa sperando di conoscere una libertà che poi non ha trovato?
 
J.A.: Avevo due possibilità: restare in Brasile e andare in prigione, oppure abbandonare il Brasile per combattere contro la dittatura. Scelsi di lasciare dal Brasile appena uscii dal carcere.
 
G.M.: Chi era il dittatore di allora?
 
J.A.: Getulio Vargas
 
G.M.: Venne in Italia e sua moglie racconta che lei sperava vincesse il Fronte popolare così fu molto deluso quando, arrivato in Portogallo, lesse in un giornale che non avevano vinto le sinistre.
 
J.A.: La sinistra italiana allora era convinta di andare al potere e io avevo scelto l’Italia per assistere a questo evento. Quando Togliatti nella redazione de L’Unità, prima che uscissero i risultati, comunicò che la sinistra stava perdendo, fu per noi una grande delusione. Solo oggi, dopo cinquant’anni, il centrosinistra è andato al potere in Italia!
 
G.M.: E’ cambiata, però, la realtà e anche il comunismo.
 
J.A.: E’ cambiata la realtà, è cambiata la sinistra, la destra, tutto è cambiato!
 
G.M.: Chi erano, in quel periodo i suoi amici in Italia?
 
J.A.: Avevo molti amici, ma la prego di non chiedermi i nomi perché la memoria spesso mi tradisce. Potrei citarne alcuni che ricordo adesso e dimenticarne altri di amici carissimi con i quali ho continuato a mantenere i rapporti nel corso di questi anni. Purtroppo la maggior parte di loro, però, purtroppo, oggi è morta. L’Italia è comunque un paese che ho visitato e visito sempre con grande allegria.
 
G.M.: Lei ha vissuto anche l’esperienza del fallimento, diciamo così, dell’utopia comunista insieme ad altri intellettuali, profughi di altre dittature. Era il 1951 e Mosca  viveva  l’epoca stalinista.
 
J.A.: Eravamo stalinisti convinti. Per noi Stalin era una specie di padre, colui che aveva vinto la guerra salvando il mondo dal nazismo. Non capivamo allora che era un dittatore proprio come Hitler. Quando Stalin morì, io stavo a Buenos Aires, piansi come se fosse morto mio padre. Spesso la comprensione delle cose richiede tempo.
 
G.M.: Ma se il comunismo ha fallito così come il capitalismo, senza aver saputo dare risposte adeguate a molti problemi, anzi creandone di nuovi, che speranza c’è per la gente, per l’umanità?
 
J.A.: Credo che dobbiamo pensare a un socialismo democratico. Non ci può essere socialismo se non c’è democrazia. Se non venisse rispettata questa condizione, ricadremmo infatti di nuovo nella dittatura, proprio come è accaduto in Unione Sovietica. I cosiddetti paesi di “socialismo reale” furono delle dittature, non delle democrazie; ecco perché non si può pensare al socialismo scisso dalla democrazia. Non è facile, ma noi siamo qui per cercare di superare il passato.
 
G.M.: La dittatura è stata una malattia del Brasile che, oltre a lei, ha toccato molte persone, come per esempio Chico Buarque de Hollanda, un prestigioso cantautore che nel 1969  dovette esiliarsi in Italia con sua moglie Marietta.
 
J.A.: Anche suo padre, Sergio Buarque, che è stato un grande storico, un grande pensatore, ha scritto sul Brasile verità assolute, definitive. Credo che Chico sia veramente l’erede, che continua con la sua meravigliosa musica l’opera del padre.
 
G.M.: Quei brasiliani esiliati in Italia si riunivano in un ristorante chiamato Il Moro, dove incontravano il poeta Giuseppe Ungaretti. In una di queste occasioni intervistai Chico Buarque e chiesi come mai le sue canzoni creassero tanto imbarazzo in Brasile. Invece di lui mi rispose serenamente Vinicius de Moraes, il suo maestro, ricordandomi che nella vita bisogna sempre fare i conti con la stupidità degli uomini. E lei dov’era in quegli anni in cui Buarque e gli altri erano esiliati in Italia e in Inghilterra? Erano gli anni tra il 1967 e il 1969.
 
J.A.: Ero in Brasile.
 
G.M.: La sua fama di scrittore era già tale da costituire una difesa per la sua integrità personale?
 
J.A.: Si può dire  che il mio arresto avrebbe provocato reazioni internazionali. Anche Niemeyer, il grande architetto comunista, non venne mai arrestato per lo stesso motivo. Vivevamo un po’ isolati, ma non venivamo incarcerati per paura di ripercussioni a livello mondiale.
 
G.M.: Fino a questo momento lei ha raccontato da solo, adesso è arrivato il momento di far entrare in studio anche la compagna della sua vita, Zélia Gattai. Zélia, quanto è sincero uno scrittore?
 
ZÉLIA GATTAI: Uno scrittore ha molta immaginazione, ma io credo che sia sincero perché uno scrittore che ha vissuto tante esperienze come Jorge, alla fine cerca di raccontare ciò che ha visto.
 
G.M.: Come vi siete incontrati, Zélia?
 
Z.G.: Nel 1945 a San Paolo, stava finendo la guerra. Allora ero già una grande ammiratrice di Jorge Amado, amavo questo uomo così forte, così sincero, che non aveva paura di nulla, andava in prigione, usciva e continuava a dire ciò che pensava. La prima volta che l’ho incontrato, nel posto in cui lavoravo, ero così emozionata che non riuscivo a parlare. Lo trovavo bello, seducente. Si avvicinò e mi chiese di lavorare per lui. Dovevo seguirlo immediatamente per battere a macchina un telegramma e poi spedirlo. Ero soffocata dalla vergogna, ma fui costretta a rivelargli che non sapevo usare la macchina da scrivere. Mi rispose secco: "Non sai farlo? Ma che donna inutile!". E’ cominciata così. Da allora ho sempre lavorato per lui e ancora oggi lo faccio.
 
G.M.: Quanti figli avete?
 
J.A.: Due. Uno è qui con noi, l’altra è in Brasile.
 
G.M.: Quanti nipoti?
 
Z.G.: Nove.
 
G.M.: E la vocazione di scrittrice, Zelia, quando l’ha scoperta?
 
Z.G.: A sessantatre anni, dopo tantissimo tempo passato ad aiutare Jorge. Leggendo e trascrivendo i suoi romanzi provavo un tale amore per i suoi personaggi, le sue descrizioni che a un certo punto mi sembrava di averle scritte io molte di quelle pagine. Mi ha aiutato tanto anche Jorge che mi ripeteva continuamente che io, figlia di italiani anarchici, povera, avevo interiorizzato tante di quelle emozioni, esperienze, sensazioni che non era giusto andassero perdute inutilmente. E così ho cominciato a scrivere. Attualmente ho già prodotto cinque libri di memorie della mia vita con Jorge, dei nostri viaggi, di tutte le nostre esperienze, e ora, a ottant’anni compiuti da un mese, ho scritto anche un romanzo d’amore.
 
G.M.: Per lui?
 
Z.G.: Tutto per lui.
 
G.M.: Ma Jorge Amado è un dittatore con le donne?
 
Z.G.: No, è dolce. Come hanno scritto: "è un uomo romantico e sensuale".
 
G.M.: C’è una stagione, dal 1961 in poi, molto fertile nella letteratura di Jorge. In quegli anni infatti scrisse I vecchi marinai, I guardiani della notte, La bottega dei miracoli. Che cosa aveva sentito dentro per ritrovare in quella stagione una tale ricchezza di scrittura?
 
J.A.: Credo, come ho già detto, di aver preso coscienza che la letteratura doveva esprimere azione e non doveva essere un discorso ideologico. Quando capii questo, mi accorsi anche che nei libri che avevo scritto prima c’era un discorso non necessario e ho cercato di eliminarlo. Così è nata innanzitutto Gabriella, che ha avuto più successo di tutti i miei libri precedenti perché non c’era più un discorso ideologico, ma raccontava la vita.
 
G.M.: Vorrei chiederle ora qualcosa a proposito del carnevale. Lei ha affermato che il carnevale non è, per il Brasile, l’oppio dei popoli, ma una espressione di libertà e di grande capacità di sopravvivenza della gente. Mi sa dire perché in Italia, invece, c’è un profondo pregiudizio rispetto a questa lettura?
 
J.A.: Il carnevale è l’essenza della cultura popolare, una festa che esprime l’ansia della libertà, l’allegria. Il brasiliano conduce una vita molto povera, meschina e nonostante questo canta e balla sempre. Il brasiliano ha un’allegria interna che va al di là della miseria. E’ l’allegria che gli regala  la capacità di mantenere una gioia interiore.
 
G.M.: E perché molta dell’intellighenzia europea ha letto tutto ciò come un condizionamento esercitato da potere?
 
J.A.: Non c’è nessun regime che possa impossessarsi del carnevale, è una festa spontanea e solo il popolo può farlo!
 
G.M.: E’ vero che nel periodo della dittatura ci sono stati, durante il carnevale, dei messaggi sovversivi trasmessi dalle stesse scuole di samba?
 
J.A.: Non lo so, è possibile che abbiano approfittato del carnevale per farlo, ma non mi risulta.
 
G.M.: Zélia, lei ha mai partecipato a una sfilata del carnevale?
 
Z.G.: Si, molte volte! Addirittura, qualche anno fa, hanno proposto tutte le maschere dei personaggi tratti dai libri di Jorge. E’ stato molto bello!
 
G.M.: Jorge, è vero che Vinicius de Moraes è stato un suo grande amico?
 
J.A.: Si, dai tempi dell’università e siamo stati amici per tutta la vita. Vinicius era un uomo eccezionale, una creatura piena di tenerezza umana, di amore, gli ho voluto molto bene.
 
G.M.: In un Brasile capace di esprimere tutta questa ricchezza intellettuale, perché i bambini – come mi ha detto una volta lei – hanno perso l’innocenza, perché c’è questa decomposizione della società, quella che il sociologo Betinho chiamava “la perversione della società brasiliana”? A che cosa è dovuto?
 
J.A.: Credo che sia dovuto alla droga, ma soprattutto, all’indifferenza del governo verso questo problema. Nonostante tutto ciò, però, io credo che il popolo sia più forte di questa miseria, di questa tristezza, di questa agonia. Credo che vinceremo questa battaglia!
 
G.M.: Una grossa responsabilità è da attribuire – purtroppo – alle nazioni europee, che si sono rese responsabili del saccheggio del Brasile, come dimostrano vari documenti, tra cui uno che ci fu mostrato da un amico di Chico Mendes, venuto a trovarci in una trasmissione televisiva per parlarci di questo leader degli estrattori di caucciù. Ci spiegò anche cosa significava rubare, saccheggiare l’Amazzonia  la banca genetica più vasta, l’ultima memoria verde non solo del Brasile, ma di tutto il mondo e, come tale, va protetta e non violentata per puri interessi di carattere economico. E’ incredibile che una tale ricchezza possa essere disintegrata! C’è un messaggio che Jorge Amado, un brasiliano che ha tanto vissuto, vuole dare alla fine di questo racconto della sua vita?
 
J.A.: Io credo che il messaggio sia semplice: bisogna salvare il Brasile, dobbiamo modificare le condizioni del potere  per preoccuparci realmente dei problemi della gente. Il vero interesse per noi è risolvere queste incertezze e non continuare con contese demagogiche per ingannare gli altri. Noi brasiliani abbiamo una forte responsabilità verso il nostro paese e siamo noi che dobbiamo cercare di farlo diventare un grande paese.
 
G.M.: Ma i modelli di sviluppo della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale uccideranno il Brasile, gli impediranno di sopravvivere. Forse una voce come la sua, capace di ricordare che tutte queste ricette sono merce avvelenata, sono modelli senza speranza, potrebbe essere un valido aiuto.
 
J.A.: Sono modelli senza speranza. E lo ripeto, è a noi brasiliani che spetta il compito di risolvere i problemi del Paese. Noi siamo i responsabili della nostra esistenza, non quelli che stanno all’estero che, fra l’altro, più che salvare , vogliono conquistare l’Amazzonia, impossessarsene e schiavizzare la gente che vive lì. Noi siamo i responsabili e, a prescindere dal tempo che ci impiegheremo, siamo noi a dover compiere questo lavoro. E’ un nostro dovere!
 
G.M.: Zélia, io sono un fan di Amado e spero che un giorno vinca il Nobel per la letteratura. Jorge non lo aspetta più?
 
Z.G.: Non lo ha mai aspettato!
 
G.M.: Non scrive per la gloria?
 
J.A.: Io scrivo per i lettori, per coloro che trovano una risposta alle loro emozioni nei miei libri. Il premio è una cosa del tutto secondaria, senza alcuna importanza per uno scrittore. E non perdo un minuto del mio tempo a pensarci.
 
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Per gentile concessione di Gianni Minà, da Latinoamerica n. 76/77 (n.3-4 2001).
 
La Biografia di Gianni Minà. E' uno degli operatori culturali, comunicatori o artisti  che hanno ideato e affermato, in Italia, la televisione e il suo linguaggio ed è uno dei giornalisti italiani più conosciuti all’estero per i suoi reportages e documentari spesso realizzati in collaborazione con network internazionali, tra i quali quelli pluripremiati su Fidel Castro, sugli indigeni zapatisti messicani e sul viaggio di Alberto Granado e Ernesto Guevara in America Latina. Per questi ha ottenuto i più importanti riconoscimenti al mondo, tra i quali quelli dei festival di Berlino e di Montreal. Ha iniziato la carriera come giornalista sportivo nel 1959 a Tuttosport (di cui sarebbe stato, successivamente, direttore dal ’96 al ’98). Nel 1960 ha esordito alla Rai-Radiotelevisione italiana come collaboratore dei servizi sportivi per le Olimpiadi di Roma. Nel 1965, dopo aver esordito al rotocalco sportivo Sprint diretto da Maurizio Barendson, ha incominciato a realizzare reportages e documentari per tutte le rubriche che hanno evoluto il linguaggio giornalistico della televisione, Tv7, AZ, i Servizi speciali del TG e poi Dribbling, Odeon, Gulliver. Ha così seguito otto mondiali di calcio e sette olimpiadi oltre a decine di campionati mondiali di pugilato, fra cui quelli storici dell’epoca di Muhammad Alì.
Ha anche realizzato, in più di trent’anni, una Storia del Jazz in quattro puntate e programmi sulla musica popolare centro e sudamericana, oltre a una storia sociologica e tecnica della boxe in 14 puntate intitolata Facce piene di pugni.
E’ stato, al fianco di Maurizio Barendson e Renzo Arbore fra i fondatori de L’altra domenica, un programma che ha fatto epoca.
Nel 1976, anno in cui, dopo 17 anni di precariato, Minà è stato assunto al Tg2 diretto da Andrea Barbato, ha incominciato a raccontare la grande boxe e l’America dello show-business, ma anche dei conflitti sociali delle minoranze. Sono iniziati in quegli anni anche i reportages dall’America Latina che hanno caratterizzato la sua carriera.
Nel 1981 il Presidente Pertini gli consegnò il Premio Saint Vincent come miglior giornalista televisivo dell’anno. Nello stesso periodo, dopo aver collaborato a due cicli di Mixer di Giovanni Minoli, ha esordito come autore e conduttore di Blitz, il programma innovativo di Rai Due che occupava tutta la domenica pomeriggio.  Nel 1987 Minà ha intervistato una prima volta  per 16 ore il presidente cubano Fidel Castro in un documentario diventato storico e dal quale è stato tratto un libro pubblicato in tutto il mondo. Dallo stesso incontro è stato tratto Fidel racconta il Che, un reportage nel quale il leader cubano per la prima ed unica volta racconta l’epopea di Ernesto Guevara.
Nel 1990 il giornalista ha ripetuto l’intervista, dopo il tramonto del comunismo. I due incontri sono riuniti in un libro edito da Sperling & Kupfer intitolato Fidel.
Nel l991 ha realizzato il programma Alta Classe, una serie di profili di grandi artisti come Ray Charles, Pino Daniele, Massimo Troisi, Chico Buarque de Hollanda e altri. Nello stesso anno, ha presentato la Domenica sportiva e ideato il programma di approfondimento Zona Cesarini che seguiva la tradizionale rubrica riservata agli eventi agonistici. Tra gli altri programmi realizzati, Un mondo nel pallone, Ieri, oggi… domani? con Simona Marchini ed Enrico Vaime e due edizioni di Te voglio bene assaje lo show ideato da Lucio Dalla e dedicato un anno alle canzoni di Antonello Venditti, e l’altro di Zucchero. Fra i documentari di maggior successo, alcuni di carattere sportivo su Nereo Rocco, Diego Maradona e Michel Platini, Carlos Monzon, Edwin Moses, Pietro Mennea e Cassius Clay-Muhammad Alì, che Minà ha seguito in tutta la sua carriera e al quale ha dedicato un lungometraggio intitolato Una storia americana.
Nel 2001, in particolare,  ha realizzato Maradona: non sarò mai un uomo comune un reportage-confessione con Diego Maradona alla fine dell’anno più sofferto per la vita dell’ex calciatore. Maradona, per 70 minuti, racconta il suo controverso rapporto con l’Argentina e la politica del suo paese, il suo soggiorno a Cuba, la sua ammirazione per Che Guevara e infine come e perché ha deciso di lasciare il calcio. Nel 1992 il giornalista ha iniziato un ciclo di opere rivolte al continente latinoamericano: Storia di Rigoberta sul Nobel per la pace Rigoberta Menchù (premiato a Vienna in occasione del summit per i diritti umani organizzato dall’Onu), Immagini dal Chiapas (Marcos e l’insurrezione zapatista) presentato al Festival di Venezia del 1996,  Marcos: aquì estamos (un reportage in due puntate sulla marcia degli indigeni Maya dal Chiapas a Città del Messico con una intervista esclusiva al Subcomandante realizzata insieme allo scrittore Manuel Vázquez Montalban) e Il Che trent’anni dopo ispirato alla vicenda umana e politica di Ernesto Che Guevara.
Nel 2004 Minà è riuscito a dar corpo a un progetto inseguito per undici anni e basato sui diari giovanili di Ernesto Guevara e del suo amico Alberto Granado quando, nel 1952, attraversarono in motocicletta e poi, con tutti i mezzi possibili, l’America Latina, partendo dall’Argentina e proseguendo per il Sud del Cile, il deserto di Atacama, le miniere di Chuquicamata, l’Amazzonia peruviana, la Colombia e il Venezuela. Dopo aver collaborato alla costruzione del film tratto da questa avventura e intitolato I diari della motocicletta, prodotto da Robert Redford e Michael Nozik e diretto da Walter Salles (il regista che fu candidato all’Oscar per Central do Brasil) Minà ha realizzato il lungometraggio In viaggio con Che Guevara, ripercorrendo con Alberto Granado ora ultraottantenne, quell’avventura mitica che cambiò la sua vita e quella del suo amico Ernesto. L’opera invitata al Sundance Festival, alla Berlinale e ai Festival di Annecy, di Morelia (Messico), di Valladolid e di Belgrado, ha vinto il Festival di Montreal e in Italia il Nastro d’Argento, il premio della critica.
Collaboratore per anni di Repubblica, Unità, Corriere della Sera e Manifesto, Minà ha realizzato dal ’96 al ’98 il programma televisivo Storie, dove sono intervenuti alcuni dei protagonisti del nostro tempo (Dalai Lama, Luis Sepulveda, Jorge Amado, Martin Scorsese, Naomi Campbell, John John Kennedy, Pietro Ingrao, ecc.) e dal quale sono stati tratti due libri. Un suo saggio Continente desaparecido, realizzato con interviste a Gabriel Garcia Marquez, Jorge Amado, Eduardo Galeano, Rigoberta Menchu, mons. Samuel Ruiz, Frei Betto e Pombo e Urbano, compagni sopravvissuti a Che Guevara in Bolivia ha dato il titolo a una collana di saggi sull’America Latina edita dalla Sperling & Kupfer.  Nel 2003  ha scritto Un mondo migliore è possibile, un saggio sulle idee germogliate al Forum sociale mondiale di Porto Alegre che stanno cambiando l’America Latina e che è stato già tradotto in lingua spagnola, portoghese e francese. Nel 2005 è uscito Il continente desaparecido è ricomparso, dove questo nuovo vento politico è interpretato da Eduardo Galeano, Fernando Solanas, Hugo Chávez, presidente del Venezuela, Gilberto Gil, cantautore e ministro della Cultura del Brasile e dagli scrittori Arundati Roy, Tarik Ali, Luis Sepulveda, Paco Taibo II e dai teologi Leonardo Boff e Francois Houtart.
Attualmente edita e dirige la rivista letteraria Latinoamerica e tutti i sud del mondo (www.giannimina-latinoamerica.it) un trimestrale di geopolitica dove scrivono gli intellettuali più prestigiosi del continente americano, di cui l’ultimo numero ha venduto oltre 10.000 copie.