Copertina della III edizione di "Gabriela, Cravo e Canela" ed. Martins
Testo farcito di dialoghi pingui, di sapide parole, di discorsi assaporati nella loro retorica inessenzialità.
Gabriela, Cravo e Canela[1] è, ai miei occhi, un romanzo da consumare come una favola gustosa, speziata, odorosa, nella quale il piacere del racconto si insinua nell’appagamento, un po’ scomposto, della sazietà conviviale, della soddisfazione intestinale finalmente raggiunta e che fa ciondolare il capo del lettore come quello di Nacib nei suoi appesantiti dopopranzo sulla sedia a sdraio montata nel cortile del retro del suo bar.
Siamo lì anche noi, allora, nel giardinetto ombroso in cui il panciuto siriano legge giornali di una settimana prima, pretesto (e
pre-testo) di un breve sonno, segnale di una momentanea uscita dal tempo e dagli affanni di una vita che sta intensificando i suoi ritmi, che si sta cadenzando sulle accelerazioni inarrestabili del progresso; siamo lì anche noi, in quella calma opaca, spessa, in quell’impigrito “frattempo” nel quale egli assume gran parte delle sue decisioni; siamo lì, lettori ben pasciuti di parole, a seguire i pensieri indolenti di quell’orco benefico e satollo che si addormenta sulla sua e sulla nostra coscienza.
Ed è lì che assistiamo al trionfo del corpo, alla celebrazione della sua ottusità e della sua astuzia impensata, allo sciorinarsi delle sue necessità e dei suoi risentimenti: corpo grasso radicato in una grassa terra che si è nutrita del sangue o del sudore di molti ma che restituisce, ubertosa, i frutti profumati del cacao, dispensando un benessere che è la metabolizzazione iperbolica di un malessere importato, entro i confini di Ilhéus, da emigranti di ogni provenienza. Metafora intestinale, questa, che si unisce alle molte altre metafore intestinali presenti nel romanzo, confermandone la natura favolistica, dato l’assetto fondamentalmente “gastronomico” di molti racconti popolari o di magia nei quali il mangiare e bere, l’esser mangiati e deglutiti, l’attività e la passività della funzione alimentare, entrano nella definizione di un mondo “altro” in cui “questo”, spaventato e affascinato, si specchia, beandosi di quell’orrore quieto, caldo, materno, che si offre al nostro inquieto fantasticare, ovvero compiacendosi di una sovrabbondanza che appaga i nostri desideri, che eccede e placa la nostra atavica fame
[2].
Le favole, di fatto, sono consolatorie e compensative, come lo è
Gabriela: consolante nel suo prospettare un’epoca nuova che succede allo strapotere del
coronelismo, dopo la fase saturnina di una terra che ha divorato i suoi figli; compensatoria nella sua raffigurazione di un tempo scandito dal mangiare e dal bere, di un tempo del godimento conviviale e corporeo che occulta ogni mancanza, che cela nei suoi interstizi i tempi, ormai trascorsi, della fame e del lutto.
Che questo sia Gabriela, come testo e come personaggio, Amado lo dichiara apertamente verso la conclusione del suo romanzo:
A porta do quartinho dos fundos estava aberta, ele espiou. A perna de Gabriela pendia da cama, ela sorria no sono. Um seio crescia no colchão e o cheiro de cravo toteava. Aproximou-se. Ela abriu os olhos e disse: - Seu Nacib... -. Ele a olhou e, alucinado, viu a terra molhada de chuva, o chão cavado de enxada, de cacau cultivado, chão onde nasciam arvores e medrava o capim. Chão de vales e montes, de gruta profunda, onde ele estava plantado. Ela estendeu os braços, puxou-o para si (p. 445)
La donna, dunque, come territorio e l’uomo radicato in esso e dentro di lei: nulla di più frequente, in ambito artistico, di tale processo di allegorizzazione, di tale trascrizione antropomorfica, di tale traduzione del corpo in paesaggio naturale. Ma qui, in questo congiungimento di terra e di albero, di femminile e maschile, c’è in più, a mio parere, lo sprigionarsi gustoso di odori e sapori che eccedono la banale sessualizzazione della natura, convocandoci in un presente di serena opulenza che chiude con un passato di carenze e di lutti (la protagonista, da
retirante, da emblema del deserto, si trasforma di fatto in simbolo della lussureggiante regione del cacao); facendoci accomodare in un universo di sensi appagati non solo sul piano erotico, ma anche su quello olfattivo e, appunto, intestinale.
Universo di cui Gabriela e Nacib fanno parte e che in loro si riassume: in lei che viene dal
sertão della fame e della mancanza, profumando di spezie e portando con sé sapori (e saperi) alimentari che sembravano scomparsi; in lui che viene dalla favolosa terra delle spezie e che si impianta e si ingrassa nell’abbondanza del Nuovo Mondo. Dal loro incontro – e dai loro scontri – si sprigiona la fragranza di una storia che si spande su tutto e su tutti, trasformando il romanzo di Amado in metafora gastronomica di un processo di metamorfosi sociale, di apertura verso il nuovo che resta, tuttavia, recupero di valori (di sapori e di saperi) antichi, naturali, corporei. Come nelle favole, insomma, siamo posti di fronte ad una crisi nella quale si rispecchia un passaggio storico decisivo e come nelle favole assistiamo al ricomporsi, quasi fatato, della armonia che sembrava perduta per sempre.
Combinazione, questa, tra
fabula e
história, tra convenzione e cronaca, che trova, nell’opera, diversi luoghi di mediazione, tra i quali il circo, sicuramente, ma soprattutto il presepe, o meglio, i presepi: quello inanimato delle sorelle Dos Reis e quello vivente in cui Gabriela partecipa e di cui si fa interprete e guida in veste di pastorella. E’ stato scritto, in effetti, che “non si comprende nulla del presepe, se non si comprende innanzi tutto che l’immagine del mondo, cui esso presta la sua miniatura, è un’immagine storica. Poiché esso ci mostra precisamente il mondo della fiaba nell’istante in cui si desta dall’incanto per entrare nella storia”
[3]. E questo ridestarsi dall’incanto, questo aprirsi alla storia della favola, di cui il presepe è il segno muto, è reso dialetticamente, nel romanzo di Amado, attraverso il contrasto fra la miniaturizzazione, ormai irrigidita, puramente convenzionale, del mondo prospettata dalle due zitelle e quella animata, coinvolgente, piena di voci e di gesti, cui “dà vita” Gabriela.
Da un lato, dunque, nel presepe delle Dos Reis (quanta ominosa predestinazione in questo cognome!) si cristallizza, senza, in verità, mai fissarsi, sia la storia del paese (di Ilhéus) che la Storia del Paese (del Brasile):
Representava o presépio, como è de esperar-se, o nascimento de Cristo na cocheira pobre da distante Palestina. Mas ah! a árida terra oriental era hoje apenas um detalhe no centro do mundo variado onde se misturavam democraticamente periodos da história, ampliando-se ano a ano. Homens célebres, politicos, cientistas, militares, literators e artistas, animais domésticos e ferozes, maceradas faces de santo ao lado da radiosa carnação de estrélas seminuas de cinema. [p. 76]
In questo affollarsi disordinato di figure e di tempi, allora, in questa eterogenea commistione di luoghi e di immagini, la storia si fa favola e la favola storia, ma proprio perciò, perché occupa tale spazio intermedio, il presepe è costretto a dilatarsi all’infinito, per accogliere, entro i confini della sua fissità incantata, l’incedere rapinoso della esistenza, il tempo inarrestabile della cronaca.
Rispetto a questo compromesso, continuamente ripattuito, tra realtà e fantasia, il presepe animato di cui Gabriela è artefice compie uno spostamento decisivo, infondendo vita e movimento alla convenzione sacra e rendendo convenzionale il presente del mutamento storico:
Gabriela descalçou os sapatos, correu para a frente, arrancou o estandarte das mãos de Miquelina. Seu corpo rodou, suas ancas partiram, seus pés libertados a dança criaram. O terno marchava, a cunhada exclamou: “Oh!”. Jerusa olhou e viu Nacib quase a chorar, a cara parada de vergonha e tristeza. E então também ela avançou, tomou a lanterna de uma pastôra, se pôs a dançar. Avançou um rapaz, um outro também, Iracema tomou a lanterna de Dora. Mundinho Falcã
o tirou o apito da boca de Nilo. O Mister e a mulher cairam na dança. A senhora de João Fulgêncio, alegre mae de seis filhos, a bondade em pessoa entrava no terno. Outras senhoras também, o Capitao, Josué. O baile inteiro na rua a brincar. No rabo do terno a irmã
de Nacib e seu marido doutor. Na frente Gabriela, o estandarte na mão. (p. 384)
Gli abitanti di Ilhéus si trasformano, dunque, in personaggi del presepe, dapprima per affettuosa solidarietà, poi, in modo spontaneo, perché catturati dalla liberatoria frenesia del ballo. Gabriela ha così spezzato la fissità silente del tempo messianico, di quel tempo abborracciato e sospeso in cui vivevano le figurine storiche delle Dos Reis, conducendo i protagonisti della nuova storia cittadina a muoversi in una nuova temporalità. Essi accettano, in altre parole, di rappresentare convenzionalmente, nel gioco e nel ballo (“o baile inteiro na rua a brincar”), il cambiamento sociale e culturale nel quale sono realmente coinvolti, vivendo, in un clima favolistico, nella finzione di un presepe danzante, quella trasformazione delle abitudini di cui Gabriela è vessillifera e avanguardia inconsapevole.
Così, dal chiuso di una stanza, l’affabulazione storica, prima sedimentata nel presepio delle due zitelle, si spande ora per le strade, si muove nell’aperto, si apre sullo spazio urbano, rendendo impercettibili i confini tra la realtà e la sua raffigurazione, ormai proposta, per così dire, “a grandezza naturale”.
Tempi nuovi, allora, alla volta dei quali la protagonista si fa guida e tramite: allegoria incantata e incantatrice di un Brasile “moderno” che si specchia tuttavia nel suo passato, nei suoi riti e nei suoi miti, mobilitandoli, utopicamente, in direzione del futuro. Funzione, peraltro, che appare ampiamente ribadita sul piano “gastronomico”, nella contrapposizione, stavolta a tre facce, fra la cucina di Gabriela e quella, ancora, delle Dos Reis, da una parte, e dello chef Fernand, dall’altra.
Se, in effetti, la culinaria impersonata dalle due zitelle rappresenta, come il loro presepio, la tradizione gustosa ma un po’ stantia (e costosa) dei piatti preparati in famiglia, nel chiuso di un sapere tecnico che cristallizza i sapori, quella di Fernand (anch’essa costosa) è, all’opposto, costruita sull’artificio e sulla sperimentazione, sulla manipolazione eccessiva, sul rifiuto di ogni tradizione regionale, sulla preparazione di piatti “esotici” –ovvero europei” e perciò privi di quel sapore che solo il radicamento nella cultura gastronomica locale, solo questo sapore assi militato, può loro conferire.
Maionese, caldo verde, galinha à milanesa, filet com fritas. Não è que fosse mà a comida, não era. Como compará-la, porém, com os pratos da terra, temperados, cheirososo, picantes, coloridos? Como campará-la com a comida de Gabriela? Josué recordava: eram poemas de camarão e dendê, de peixes e leite de côco, de carnes e pimenta. Nacib não sabia como tudo aquilo iria acabar. Aceitariam os fregueses esse pratos desconhecidos, esses molhos brancos? Comiam sem saber o que estavam comendo, se era peixe, carne ou galinha. (p. 431)
Dunque, la nostalgia per Gabriela nasce e si alimenta nel palato e nell’odorato, nel gusto e nell’olfatto, prim’ancora che nel desiderio sessuale (“[Nacib] estava curado, conseguira esquecê-la, não a cozinheira, a mulher […] Suspirava ainda mas pela cozinheira inigualhavel, suas moquecas, os xins-xins, as carnes assadas, os lombos, as cabidelas” p. 428). La sazietà erotica viene, insomma, dopo quella intestinale, che solo l’arte gastronomica di Gabriela può veramente dispensare – e dispensare “a basso prezzo”, in modo spontaneo e senza contropartite.
E questo perché la sua arte, proprio in quanto tale, sa combinare la sterile consuetudine delle Dos Reis (zitelle) con l’inventiva “innaturale” di Fernand (omosessuale), in una superiore armonia di saperi e sapori che si diffonde anche nella camera da letto, che impregna di sé i suoi comportamenti sessuali – anch’essi improntati, di fatto, alla massima libertà nei confronti della tradizione, anch’essi segnati dall’incanto di una sapienza antica, primigenia. Del resto, il mangiare e il copulare non possono che essere funzioni complementari in questo mondo elementare, dominato dalla corporalità, ancora favolistico, costruito da Jorge Amado. Mondo in cui Gabriela agisce ed è agita: suprema preparatrice di cibi e cibo essa stessa, soggetto del desiderio e oggetto desiderato
[4].
L’associazione che qui si prospetta fra i due appetiti non è isolata nel corso del romanzo
[5] e rinvia, ancora e sempre, a quella atmosfera favolistica e popolaresca satura di allusioni al corpo e alle sue funzioni, attraverso le quali passa, obbligatoriamente, ogni conoscenza, ogni esperienza del reale. La storia di Gabriela è, in questo senso, anche una grande metafora della corporalità e dei suoi bisogni, è meglio ancora, parabola narrativa nella quale si riflette magicamente (“si fa parola”) la materialità di un cambiamento del corpo sociale – all’interno, però, di una continuità storico-culturale, di una fedeltà indiscussa verso una condizione originaria, verso un tempo mitico scandito dai ritmi immutabili dell’urgenza fisica, del desiderio sessuale-alimentare.
Parabola, dunque, e insieme
parola: una continuità etimologica che qui si fa contiguità e che, in portoghese, potrebbe tradursi nel rapporto tra
fábula e
fala, mantenendo inalterati i suoi rinvii ad una oralità che si struttura, naturalmente, in racconto e ad una narrativa intesa nella sua forma costitutivamente fonica, orale. Inerenze e interferenze, peraltro, costantemente presenti nella ispirazione amadiana che assume dalla ricca tradizione della letteratura popolare forme e contenuti dei suoi racconti e alla oralità li riaffida
[6]: in una circolarità che si potrebbe dire “autofagica” –sempre guardando all’ambiguo ruolo della bocca come sede del gusto e luogo della parola -, per la quale ciò che nasce dalla voce in essa si raccoglie, dopo un percorso che si inarca, come parabola, nella scrittura e nel senso. Basterebbe appena ricordare i casi di
Jubiabá e di
Tereza Batista,
cansada de guerra, opere nelle quali, appunto, il debito evidente verso la letteratura canstastoriale si trasforma in credito, nel momento in cui la storia raccontata si condensa in una storia da raccontare, riprendendo la via dell’oralità.
E si pensi, in effetti
all’ABC de Antônio Balduíno con il quale si conclude il primo romanzo o
all’ABC da peleja entre Tereza Batista e a bexiga negra posto quasi al centro del secondo, come una sorta di récit speculaire nel quale l’opera intera sembra destinata a riflettersi e a risolversi in pura traccia, la quale prelude, a sua volta, ad una sua riassunzione in uno stato eminentemente fonico, orale.
Per
Gabriela possono valere le medesime considerazioni
[7], con in più, a mio parere, la sottolineatura di quell’aspetto alimentare fin qui discusso e che si spande sul testo costringendo a leggere questa parabola come parola che, per così dire, “si dà a mangiare”. Non è forse il caso di mobilitare, per questo, l’esempio evangelico del Cristo, dispensatore di parabole e parola egli stesso –ovvero Parola, Verbo che si fa carne e che si offre in pasto ai discepoli per la loro conversione, dando ad essi il dono di un linguaggio universale, da tutti inteso (“All’udire quel suono, si radunò la moltitudine e rimase confusa, perché ciascuno li sentiva parlare nella loro lingua”, Atti degli Apostoli, 2, 6).
Non mi pare il caso, ripeto, di spingersi fino ad un confronto con antiche ierofanie legate alla Voce, giacchè per Amado ci si può attenere ai modelli più immediati ed evidenti costituiti dalla letteratura cantastoriale, da un lato, e da quella infantile, dall’altro. Modelli, certo, che – com’è stato dimostrato – serbano dentro di sé una porzione di assoluto, si smarriscono in una origine culturale striata dal sacro, connessa alla fenomenologia di una Parola che sana e che salva, ma che d’altra parte, forse più concretamente, si attengono ad una funzione pedagogico-esemplare o allegorico-etica nella quale la parabola/parola è alimento da metabolizzare e da ridistribuire ad altri, ritornando così alla bocca come luogo, a un tempo, della ingestione e della fonazione
[8].
Gabriela, dunque, con il suo ammiccare costante alla oralità e con il suo continuo parlare di cibo, non sarebbe, in questa prospettiva, che la ripetizione dell’uso infantile/popolare di nutrirsi attraverso il racconto e di raccontare il nutrimento: gesto, elementare e costitutivo nel quale si coniugano, per via fantastica, due esigenze primarie.
[9]. E in questo senso, Gabriela – in quanto testo e in quanto personaggio – sarebbe null’altro che ciò che si consuma, senza mai consumarsi (essendo “favola”), presentandosi, alla fin fine, nel doppio ruolo di persona che dà da mangiare e di cosa che si dà a mangiare, ovvero di soggetto che è parola e di oggetto da parlare. Tutti, in effetti, nel romanzo discutono di lei e tutti ne assaporano le delizie gastronomiche, tutti ne apprezzano il corpo e di esso, verbalmente o fisicamente, si cibano. La controprova è che, allorchè ella interrompe il suo rapporto con Nacib e non gli prepara più i suoi pranzi, gli altri cessano di parlarne, ella scompare dal discorso divenendo inesistente o, meglio, riducendosi ad uno stato puramente virtuale, come i suoi cibi non più cucinati:
Riam e debochavam mas não de Nacib, e, sim, de Tonico […]. Sem falar na bofetada. Foi glosada em prosa e verso. Josué compusera um epigrama. Sobre Gabriela ninguém falava. Nem bem, nem mal, como se ela estivesse mais além de todo comentario ou como se não mais existisse. [pp. 404-405]
Lei, paradossalmente, che gode di quest’essenza e di questa esistenza eminentemente verbali proprio lei che resta al centro dei discorsi altrui, parla poco, riservandosi piuttosto il ruolo di tramite, di collegamento fra due mondi (il silenzio e la parola, l’assenza e l’eccesso, il passato e il futuro, la campagna e la città, l’aridità del
sertão e la feracità della terra del cacao…). Parola, dunque, che si lascia parlare, conservando la sua innocenza
in-fantile, la sua condizione di non-parlante che, appunto per questo, conduce al senso i molti, contradditori discorsi che si intrecciano attorno a (e su di) lei, esprimendosi, in quanto personaggio, solo nel gioco e nel riso, nel gesto e nel canto puerili (“Resistir não podia, brinquedo de roda adorava brincar. Arrancou os sapatos, largou una calçada, correu pros meninos. […] A cantar, a rodar, a palmas bater, Gabriela menina” [p. 290]).
A noi lettori famelici, come gli abitanti bramosi di “impetuoso progresso” di Ilhéus, non resta che assaporare il gusto di questo fantasma verbale che appaga i nostri bisogni; di questa parabola che ci consola della luttuosità del reale e che compensa le nostre carenze, consentendoci di leggere con affascinato torpore le metamorfosi inquietanti della storia. Lettori soddisfatti e incantati, potremo poi disporci a raccontare senza fine la favola golosa di una ragazza bella che era la terra odorosa di cacao e di un orco buono che in essa si abbarbicava e prosperava. E allora useremo a sazietà – saziandoci continuamente nel riusarle – parole che conserveranno il profumo penetrante del garofano e il colore dolce e ambrato della cannella.
[1] Utilizzo in questa sede, per le citazioni, la terza edizione del romanzo (São Paulo, Livraria Martins Editora, 1958), indicando sempre, nel testo, le pagine da cui esse sono tratte.
[2] Fra i vari studiosi che hanno analizzato il rapporto fra alimentazione e folclore, nonché le ricadute che esso ha sul piano dell’immaginario, è doveroso almeno segnalare il nome di Piero Camporesi e, fra le molte opere da lui dedicate a tale argomento, è d’obbligo ricordare, a mio parere, il bel volume
Il paese della fame (2a ed., Bologna, Il Mulino, 1985) nonché l’importante raccolta dei suoi saggi pubblicata con il titolo
La terra e la luna (Milano, Il Saggiatore, 1989[si legga, soprattutto,
Alimentazione e cultura popolare, pp 55-74])
[3] G.Agamben, “Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe”, in G.A.,
Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi, 1978, p. 131. A questa opera rinvio, più in generale, per un’analisi approfondita dei rapporti tra l’universo prospettato dalla favola e le sue connessioni con la realtà storica.
[4] Cf. a proposito della combinazione fra erotismo e gastronomia nel romanzo amadiano, il bel saggio di Ilana Strozemberg “
Gabriela, cravo e canela ou as confusões de uma cozinheira bem temperada” in
Tempo Brasileiro, n. 74 (julho-setembro de 1983
Jorge Amado, km 70), pp 66-93 (e, in particolare, le pp. 80-91)
[5] Si legga, ad esempio, alla p. 201 dell’ed. cit.: “Semicerravam-se os olhos do árabe: a marmita cheia de comida gostosa, àquela hora sentia-se esfomeado, contendo-se para não devorar os pastéis de camarao, os bolino dos tabuleiros” E a entrada de Gabriela significaria mais uma rodada de bebida em quase todas as mesas, aumento de lucro. Ao demais,era um prazer para os olhos vê-la no meio do dia, rememorar a noite passada, imaginar a proxima”. Vale la pena di sottolineare come la sovrapposizione dei desideri –quello alimentare e quello sessuale- si associ qui, alla prospettiva del guadagno, al “lucro” che è un’altra modalità dell’appagamento, della
fartura agognata.
[6] Sui rapporti fra la narrativa di Amado e la letteratura cantastoriale, si veda in particolare il libro di Mark J. Curran,
Jorge Amado e a literatura de cordel, Salvador, Fund. Cultural do Estado da Bahia-Fund. Casa de Rui Barbosa, 1981. Lo studioso nordamericano sottolinea, tra l’altro, come la storia di
Tereza Batista sia stata riproposta in un
folheto di Rodolfo Coelho Cavalcante (cf. pp. 85-87), fatto che conferma la dialettica scrittura/oralità implicita in gran parte della produzione amadiana: una voce che si fa traccia per poi tornare allo stato orale.
[7] Si possono citare, sul ruolo dell’oralità in questo romanzo e a proposito del dialogismo in esso implicito, le conclusioni di Antonio Olinto, esposte in un suo saggio recente: “As palavras de Gabriela, Cravo e Canela – mesmo as que não são de dialogo – possuem a marca do coloquio. […] . O coloquio aparece no caso, como parte do “contar historia”. Narrador por excelencia, não dissocia Jorge Amdo o ato de escrever do de “contar” uma historia, contar mesmo, no sentido de falar para uma audiencia, de desfiar, em palavras pronunciadas em voz alta, um segmento de fatos” (“Jorge Amado”, in
Quaderni Ibero-Americani, n. 74 (dicembre 1993 – Omaggio a Jorge Amado), p. 13-24 (p. 17] ).
[8] Su tutto questo, si vedano le fondamentali considerazioni di Louis Marin, nella sua raccolta di saggi intitolata
La parole mangée et autres essais théologiques-politiques, Paris, Méridiens Klincksieck, 1986 [in particolare le pp. 1-49]
[9] Louis Marin ha espresso, in modo assai più analiticio, questa corradicalità dei bisogni e delle pulsioni fra parlare e mangiare nell’universo popolare/in-fantile: “L’oralité langagière répéterait dans l’articulation symbolique de la voix comme paroles de la parole, cette relation entre pulsion érotique et instinct de conservation, cette écriture de la pulsion comme re-marquage du besoin”.
Per gentile concessione del prof. Ettore Finazzi-Agrò. In:
Jorge Amado : ricette narrative / a cura di Giulia Lanciani. Roma : Bulzoni. 1994